Riflettendo sul folk-lore, Antonio Gramsci, nei suoi Quaderni del carcere, ammoniva a non concepirlo «come una bizzarria, una stranezza o elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. Solo così […] determinerà realmente la nascita di una nuova cultura moderna e popolare».
Dunque, “popolare” è un concetto dinamico (e non statico); esso cioè non indica un qualcosa che si trasmetta senza mutarsi nel tempo, ma esattamente il contrario. Con il termine “folk-lore” indichiamo, quindi, non l’ingenuo, il semplice, il pittoresco, il mitico; bensì, una vera e propria concezione del mondo e della vita, elaborata dalle classi subalterne, e che è alternativa, rispetto a quella delle classi dominanti. Tutte le manifestazioni della “cultura popolare”, quindi, vanno viste (e vissute) come cose serie (da prendere sul serio), non come stranezze.
Ebbene, la presenza del “divino”, attraverso il culto dei santi, esprime una certa idea di ‘familiarità’ che esiste tra il mondo contadino (popolare) e il mistero di Dio. La Chiesa, in un documento dei Vescovi italiani, ha ribadito che, tra i valori fondamentali delle popolazioni meridionali, è da considerare «la sentita religiosità popolare, che merita molta attenzione come terreno fertile per seminare e far fruttificare la pienezza dell’annuncio cristiano». Già in sede conciliare, comunque, era stato affermato che «la Chiesa […] tutto ciò che nel costume dei popoli non è indissolubilmente legato a superstizione o ad errori, essa lo considera con benevolenza».
Al nome “Trifone” l’Enciclopedia cattolica riporta una scheda inerente il martire “Trifone”, nativo di Campsade, villaggio frigio sottomesso alle aquile romane, situato nell’attuale Turchia europea (recenti studi, tutti, però, da sottoporre a verifica storiografica, sostengono che sia nato a Lampsaco, nel 232, polis greca della Misia, in Asia minore, ubicata sulla riva sud dello stretto dei Dardanelli, nell’Ellesponto, nelle vicinanze dell’attuale città di Lapseki). Trifone, insieme con un certo Respicio, è commemorato nel Martirologio Romano, il 10 novembre. Il martirio, però, sarebbe avvenuto il 2 febbraio del 250, per decapitazione, a Nicea, in Asia minore, all’età di diciott’anni. Dei due santi martiri (Trifone e Respicio) si posseggono notizie certe solo per Trifone. Questi, infatti, benché morto nella Nicea bitiniana (antica regione, regno autonomo e provincia romana, situata nella parte nord-occidentale dell’Asia minore), era oggetto di fervido culto popolare in Frigia (regione storica dell’Anatolia centrale): la sua Passio (Passione), piuttosto di maniera e sovraccarica di topoi letterari (la stessa Enciclopedia cattolica la definisce «leggendaria» e «anacronistica»), racconta dell’arresto [di Trifone], del processo, della intransigenza del giovane “guerriero della fede”, delle torture subite, di alcune conversioni suscitate dal suo esempio, della ferocia pagana, e, quindi, del martirio.
Il “martire” è un testimone; un esempio vivente, morente ed eterno, un modello di fede e di vita, da imitare. Ha chiarito lo studioso Alfredo Cattabiani, che «in greco màrtyr significava testimone; e il primo dei martiri, il modello, era stato il Cristo stesso […] il martire che confessa la propria fede nel Cristo fino all’estremo sacrificio diventa una realtà sola con il Crocifisso risorto e rende al Padre la stessa testimonianza di fedeltà che gli ha reso il Figlio».
I resti mortale di Trifone, santo e martire, da Campsade, dov’erano stati tumulati dai primi cristiani, furono portati, con una nave veneta, a Cattaro, in Dalmazia. Di qui, come assicura una bolla del vescovo di Cattaro del 1839, una piccola reliquia fu inviata a Montrone. La reliquia, la statua e il quadro con l’effige del santo atrono, la cui festa viene celebrata il 10 novembre, sono conservati nella chiesa madre del rione Montrone di Adelfia. Nella città montenegrina, invece, i festeggiamenti in onore di san Trifone ricorrono il 3 febbraio.
La festa
Qual è il “senso” della festa, e perché, ad Adelfia, ricade nella prima decade del mese di novembre? Lo studioso russo Michail Bachtin, in uno saggio sulle forme della cultura popolare, ha chiarito che «le feste (qualunque esse siano) sono una forma primaria molto importante della cultura umana. Non si deve considerarle né spiegarle come un prodotto delle condizioni e degli scopi pratici del lavoro collettivo o – interpretazione ancor più volgare – del bisogno biologico (fisiologico) del riposo collettivo […] le festività hanno sempre un rapporto essenziale con il tempo. Alla loro base sta sempre una concezione determinata e concreta del tempo naturale (cosmico), biologico e storico». Così come, pure, Cattabiani ammonisce che «nella oramai predominante concezione del tempo lineare e strumentale […] le feste stanno perdendo la funzione di ponti tra la dimensione atemporale e quella temporale, e sono ridotte, tranne in ambienti limitati, a comportamenti genericamente e talvolta tetramente festosi, o a semplici occasioni di vacanze – dal verbo vacare, essere vuoto, privo di impegni – e di compere affannose».
La festa di san Trifone è, per Adelfia, produttrice di uva da tavola (e, in parte, da vino), un autentico capodanno. Sempre Cattabiani, fa notare che, un tempo, a san Martino (cioè, l’11 novembre), iniziava «l’attività dei tribunali, delle scuole e dei Parlamenti; si tenevano le elezioni municipali, si pagavano le fittanze, le rendite e le locazioni; venivano rinnovati i contratti agrari […] era festeggiato con fiere, fuochi e banchetti innaffiati dal vin novello perché “per san Martino ogni mosto è vino”: leggero ma traditore».
Ebbene, nella realtà economica di Adelfia, incentrata com’è sulla coltura della vite, il mese di novembre rappresenta per tutti il coronamento di un intero anno di lavoro.
La festa di san Trifone, da sempre, ad Adelfia, ruota, di anno in anno, intorno a quattro polarità: il vino, la carne, i fuochi pirotecnici e la fiera-mercato.
Il vino
Il vino rappresenta il lavoro umano, o, meglio, il lavoro umano vittorioso sul mondo. Il vino è, infatti, il frutto di uno scontro tra l’uomo e il mondo; quindi, la sconfitta del mondo, per mezzo della fatica umana. Una fatica dura, ma anche gioiosa e liberatoria, che sconfigge la negatività.
Il vino, inoltre, è simbolo della verità e della libertà della parola: parola in libertà è la parola che emerge da una lingua sprigionata (grazie al vino) dalle catene delle norme e delle regole; lingua libera, lingua eversiva, che annulla ogni gerarchia e ogni distanza, che vince ogni etichetta perbenista (sociale e linguistica). Il vino, infatti, è il negatore per eccellenza della convenzionalità, dell’ipocrisia e della paura.
La carne
Il luculliano banchetto, che segue la pomeridiana gara pirotecnica, è a base di carne di agnello. È (buona) norma, infatti, per il giorno di festa, strafare con la carne, come con tante altre cose! È norma, cioè, mangiarne fino a scoppiare, senza misura alcuna. Nel giorno della festa, tutto deve oltrepassare il limite della quotidianità. Vino e carne assunti come simboli, oltre che di prosperità, anche di buona salute. La carne, dunque, la materialità per eccellenza, celebra la sua festa con la copiosa macellazione di tenerissimi agnelli. All’interno dell’etica contadina (della visione contadina, popolare, della vita), una festa senza la carne, semplicemente, non sarebbe festa! Nell’ideologia contadina popolare, in quella visione folk-lorica che abbiamo ricordato prima, c’è festa solo se c’è sacrificio di sangue, celebrazione carnale. Il santo patrono, del resto, a ben riflettere, ha offerto al Cristo, con il martirio, la sua carne, il suo corpo, il suo sangue. Cristo stesso, per espiare i peccati dell’umanità intera, ha accettato, dopo patimenti atroci, di sacrificare a prpria carne. Con la celebrazione eucaristica, i fedeli assistono, in quel giorno, a un duplice sacrificio carnale: quello del Cristo – agnus Dei – e quello del santo martire Trifone – miles Christi -.
I fuochi
I fuochi pirotecnici altro non sono che l’umano tentativo, caparbio e ingegnoso, di disciplinare, dal basso della terra, uno degli elementi fondamentali della realtà naturale. Il riferimento è ai quattro elementi empedoclei: acqua, aria, terra e fuoco.
Molto profondo e remoto è, dunque, il valore di questo “divertimento” popolare, solo in apparenza futile e dispendioso. Grazie a esso, infatti, si rinnova l’illusione umana del dominio del reale, della capacità umana di progettare razionalmente l’universo intero. Il mondo, per così dire, viene ordinato dall’uomo, attraverso la sapiente e rischiosa manipolazione del fuoco (della polvere pirica), sia pure per pochi istanti (quelli della effimera durata del fuoco pirotecnico). Il progetto ordinatore dell’uomo parte dal basso, dalla terra, dalla nostra infima condizione materiale, per sfrecciare, velocissimo, verso l’alto per eccellenza, verso il cielo, e per disegnare nell’aria un concerto affascinante di artificiosi suoni, e di artificiosi colori.
La fiera
La fiera-mercato che viene organizzata oggi è una scialba sopravvivenza delle grandiose e vitalissime fiere medievali. Un tempo, il popolo viveva “due” vite: una ufficiale e quotidiana; l’altra ufficiosa e extraquotidiana. La prima, regolata gerarchicamente, in modo ferreo; la seconda, invece, organizzata intorno al libero scambio interpersonale; intorno al contatto libero e ravvicinato tra le persone. La prima, tenebrosa e privata; la seconda, solare e pubblica; l’una, individuale e cerimoniosa; l’altra, collettiva, fino al punto di manifestarsi in termini di calca, di massa.
Ebbene, al di fuori di una società d’antico regime, la fiera-mercato non è che una sopravvivenza mutila dei suoi elementi eversivi, resa tale dall’etica borghese. Le grida dei venditori, le loro imprecazioni-ingiurie, le loro lodi, i loro sfottò, le loro bestemmie, le loro imprecazioni, le loro lusinghe, tutti i loro atti linguistici di piazza, i contatti ravvicinati, la calca fisica, il grande corpo popolare che si agita, ecc., non hanno più, oggi, il potere di annullare le gerarchie sociali (come, invece, avveniva all’interno del luogo-momento medievale della fiera). sia pure con la consapevolezza, nel Medioevo, che tale annullamento delle gerarchie sociali, avveniva per poco tempo, e nello spazio circoscritto della fiera (inteso proprio come luogo-momento extraterritoriale e extratemporale, all’interno del quale, cioè, le leggi, le norme, sociali, linguistiche, religiose, economiche, ecc., non valevano più. Un po’, come gli odierni “quartieri fieristici”, che sono spazi a parte rispetto al resto della città, con leggi, norme e reggitori propri. Un po’ come gli odierni concetti di “parco della festa”, o di “parco letterario”).
San Trifone di Montrone è un articolo scritto per Regionepuglia.org da Trifone Gargano
Il sito ufficiale dedicato al Santo con il programma ufficiale delle celebrazioni 2013 è qui Santrifone.it
Bibliografia essenziale di riferimento:
AA.VV., I documenti del Concilio Vaticano II, Milano 1968;
AA.VV., Chiesa italiana e Mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà, Milano 1989;
Bachtin, M., L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Torino 1979;
Bronzini, G.B., Folk-lore e cultura tradizionale, Bari 1972;
Cattabiani, A., Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno, Milano 1989;
Cirese, A.M., Intellettuali, folklore, istinto di classe, Torino 1976;
Cocchiara, G., Il paese di cuccagna, Torino 1956;
Gramsci, A., Quaderni del carcere, Torino 1975;
Lanternari, V., Crisi e ricerca d’identità, Napoli 1977.
Link alla (recente) scheda su Wikipedia: