a cura di Trifone Gargano
A 150 anni dalla morte (avvenuta il 22 maggio 1873), quella di Alessandro Manzoni «fu vera gloria»? Mi piace iniziare proprio con questo interrogativo (dal sapore e dal gusto manzoniani) questo mio intervento sulla presenza dell’opera di Manzoni nella nostra società (e nella nostra scuola), in quanto classico. Gli anniversari e le celebrazioni servono anche a questo: fare bilanci. Dunque, occasione preziosa per un ripensamento complessivo sul romanzo, sulle scelte linguistiche, sull’ideologica, e su tante altre cose, della vita e dell’opera di Alessandro Manzoni, in modo da dare una risposta al quesito inziale. Per provare a rendere più esplicita la prospettiva di lettura, la prospettiva culturale e didattica, di questo mio bilancio manzoniano, aggiungerei un secondo interrogativo, e cioè: «può un lettore di oggi identificarsi con Lucia, o con Renzo, anaffettivi e rinunciatari su tutto?»
Premetto che in questo intervento non potrò diffondermi, anche perché la natura della comunicazione digitale è veloce e leggera, non come quella di carta, che, al contrario, è lenta e pensante (non pesante, si badi: pensante). L’online corre velocemente e tocca a chi scrive per blog e altri social network riuscire a togliere peso alle proprie riflessioni, per farle viaggiare e suscitare curiosità e desiderio di approfondire. Chi vorrà approfondire, allora, questa mia provocazione su Manzoni, potrà farlo, a breve, leggendo un mio saggio dedicato alla presenza (o alla imposizione) di Manzoni nella nostra società e nella nostra scuola: Dimenticare Manzoni, Edizioni Radici Future.
Il lettore, un qualsiasi lettore, nel momento in cui fa esperienza di lettura (e la fa utilizzando tutti e cinque i sensi), di fatto, entra nella geografia fantastica della storia di cui sta leggendo le vicende, lasciandosene catturare. Grazie ai così detti neuroni specchio, la lettura diventa un’esperienza emozionale. All’antica idea, di natura psicologica, che il lettore si identifichi con il personaggio della storia, oggi, fa riscontro la teoria scientifica dei neuroni specchio, grazie alla quale sappiamo che apprendiamo vedendo, partecipando cioè fisicamente, in una dimensione immersiva (proprio come accade con un videogioco, che prevede il coinvolgimento totale, fisico, con il coinvolgimento attivo del corpo, nella realtà virtuale, per contribuire a co-creare la video-storia, e a co-definire i contorni, i dettagli, di quel mondo virtuale e narrativo). I neuroni specchio ci fanno assumere, in quanto lettori attivi, la prospettiva degli altri (la prospettiva dei personaggi con i quali ci identifichiamo, durante la lettura, nel momento in cui li vediamo agire, agendo, quindi, con loro, in loro). Questo processo identificativo e apprenditivo è importantissimo, sia per l’acquisizione di specifiche competenze letterarie, che per l’acquisizione di competenze di cittadinanza. La lett-erat-ura, dunque, come esperienza potenziale, mutante, dinamica, in continuo cambiamento. Il lettore-autore, che partecipa emozionalmente e fisicamente alla creazione e allo sviluppo narrativo della vicenda, può cambiare il suo punto di vista sulla storia; può cambiare i suoi sentimenti; può cambiare la sua adesione emozionale alla storia; e così via.
Il lettore, dunque, entra nella storia, si identifica con uno o con più personaggi, partecipa emotivamente alle vicende narrate, attiva dentro di sé un processo di crescita e di maturazione psicologica e affettiva. Nel caso dei Promessi sposi, superate le iniziali difficoltà linguistico-espressive, un lettore di oggi potrà mai identificarsi con Lucia, o con Renzo, anaffettivi e rinunciatari su tutto? Egli, cioè, leggendo oggi quel romanzo, potrà mai attivare quel processo di crescita e di educazione ai sentimenti, di gestione delle emozioni, che la identificazione comporta? Purtroppo, no. La risposta al quesito è una risposta secca e negativa. No. Non potrà mai identificarsi con Lucia o con Renzo. Occorre prenderne atto, con serenità e senza ulteriori indugi. Il romanzo di Alessandro Manzoni va consegnato alla storia (dell’Ottocento), va rimesso nello scaffale, accanto a Silvio Pellico, a Ludovico di Breme (e ad altri), in quanto opera totalmente estranea alla sensibilità e ai bisogni educativi odierni. Esso, infatti, ha ben poco, oramai, da dire e da dare a un giovane lettore di oggi, sia sotto il profilo emotivo relazionale, che sotto quello educativo (di gestione dei sentimenti e della sessualità). Nulla (o quasi), inoltre, ha più da dire e da dare anche sotto il profilo culturale, sociale e politico (visto che, nelle sue pagine, l’unico atteggiamento consentito è quello della supina – e cristiana – accettazione del destino, della fiducia nella sola provvidenza divina, e della totale rinuncia a ogni azione umana). Nulla (o quasi), infine, ha più da dire e da dare quel romanzo a un lettore contemporaneo anche sotto il profilo linguistico e letterario. Per la stesura definitiva del romanzo, infatti, Manzoni fece ricorso, com’è noto, alla scelta linguistica di mettere agli arresti domiciliari la lingua italiana (l’espressione non è mia, ma di Carducci), restringendola in un solo quartierino di Firenze, ed espungendo da essa la vivacità, i colori e le visioni multi-prospettiche delle altre parlate d’Italia, voltando, così, le spalle al secolare multi-linguismo italico, che affondava le sue radici nell’idea di «volgare illustre» di Dante Alighieri (di Trissino, di Graziadio Isaia Ascoli e di Ippolito Nievo, tanto per citare soltanto qualche nome).
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