di Trifone Gargano
Sono tanti i riferimenti al Natale, al mistero e al dogma dell’incarnazione del Figlio di Dio nella storia dell’umanità, presenti nel poema dantesco. Seguendo il viaggio dantesco, propongo, qui, una mini-rassegna di quei luoghi testuali nei quali il riferimento al dies natalis cristiano è esplicito.
Il primo riferimento è contenuto in Pg III:
Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone. 36
State contenti, umana gente, al quia;
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria; 39
È matto colui che spera che la nostra ragione
possa penetrare (trascorrer) la via infinita
che segue Dio, unica sostanza in tre persone.
Accontentatevi, umana gente, di conoscere i fatti (quia),
perché (ché), se aveste potuto comprendere (veder) tutto,
non sarebbe stato necessario (mestier non era) che Maria partorisse [Gesù il Cristo];
Il contesto è quello dell’intervento che Virgilio sta svolgendo sulla capacità, stabilita da Dio, che questi corpi eterei possano sentire il caldo e il gelo, possano, cioè, soffrire fisicamente tutti i tormenti che la giustizia divina ha stabilito per ciascuno di loro (tanto all’Inferno, che al Purgatorio). Si tratta, dunque, di un mistero che l’uomo non può penetrare, per via della sua limitata ragione. Del resto, conclude in modo sentenzioso Virgilio, se l’umana ragione avesse potuto comprendere tutte le grandi verità, non sarebbe stato necessario che la Vergine Maria partorisse Gesù, che venne, appunto, per rivelare all’umanità la verità divina. Com’è noto, Virgilio chiude in fretta questo discorso, che poi verrà ripreso e sviluppato, nel canto XXV del Purgatorio, non più da lui, che è (e resta) pagano, ma da parte di Stazio, l’anima che ha quasi ultimato il percorso penitenziale, e che, quindi, sta per volare nel Paradiso celeste, beato tra i beati.
Il secondo riferimento al Natale, più lungo ed esplicito, rispetto al precedente, è contenuto nel canto XX del Purgatorio, lì dove, cioè, per bocca di Ugo Capeto, personaggio centrale del canto, vengono esaltate la povertà e la generosità, come virtù antitetiche dell’avarizia, che è il male di questa quinta cornice purgatoriale, attraverso alcuni esempi. Uno di questi esempi riguarda la consuetudine di quel tempo (e che dura ancora) di invocare la Madonna nei momenti dolorosi del parto:
Noi andavam con passi lenti e scarsi,
e io attento a l’ombre, ch’i’ sentia
pietosamente piangere e lagnarsi; 18
e per ventura udi’ «Dolce Maria!»
dinanzi a noi chiamar così nel pianto
come fa donna che in parturir sia; 21
e seguitar: «Povera fosti tanto,
quanto veder si può per quello ospizio
dove sponesti il tuo portato santo». 24
[Noi camminavamo con passi lenti e brevi,
e io stavo attento alle anime, che sentivo
piangere e lamentarsi pietosamente;
quando (e), per caso (per ventura) udii [invocare] «Dolce Maria»,
con un tono così accorato, come quello di una donna che stia per partorire,
e proseguire: «Fosti tanto povera
quanto si può capire da quella stalla (ospizio)
in cui hai deposto (sponesti) il tuo santo figlio (portato) [Gesù]».]
Anche Manzoni, nell’inno sacro del 1813, Il Natale, riprenderà al v. 61 il vocabolo «portato», per indicare il «bambino» della partoriente.
In questo canto XX del Pg, inoltre, trova anche posto, come terzo esempio virtuoso di non attaccamento al denaro (e al potere), san Nicola di Myra, patrono di Bari, a completamento di quelle immagini legate al santo Natale, dal momento che, com’è noto, Babbo Natale, elargitore di doni, è da identificare proprio con san Nicola di Bari:
La tradizione, alla quale certissimamente Dante ha attinto, è quella del racconto contenuto nella Legenda aurea di Jacopo da Varazze (1228-1298), domenicano, arcivescovo di Genova, poeta e scrittore di cose sacre, proclamato beato dalla Chiesa cattolica. Fu, infatti, Jacopo da Varazze a raccontare per primo di Nicola, vescovo di Myra, che, venuto a conoscenza delle difficoltà economiche di una famiglia, e del proposito (disperato e scellerato) di quel padre di far prostituire le sue tre figlie, decidesse, di nascosto, di buttare attraverso una finestra, ripetutamente, in quella casa, tre sacchi di monete d’oro, in modo da dotare le tre «pulcelle» per il matrimonio, e quindi allontanare il rischio di una vita scellerata.
Infine, sempre nel canto XX del Pg, al verso 136, si dà notizia dell’inno liturgico «Gloria in excelsis Deo» (Gloria a Dio nell’alto dei cieli), che le anime dei purganti cantano, in questa cornice, come preghiera. Sono le stesse parole che avevano pronunciato, cantandole, gli angeli accorsi sulla stalla di Betlemme, quella notte santa, così come racconta l’evangelista Luca (2, 14). Ed è proprio Dante che ricorda questo dettaglio di Betlemme, precisando che lui e Virgilio stavano immobili e incantati esattamente come i pastori dinanzi a Gesù bambino:
No’ istavamo immobili e sospesi
Come i pastor che prima udir quel canto [139-40]
Il mio terzo esempio dantesco di riferimento al Natale, in questa mia minirassegna, è contenuto in Pd VII, nei versi nei quali il poeta allude al mistero della incarnazione di Gesù, che è il mistero centrale del cristianesimo:
fin ch’al Verbo di Dio discender piacque [30]
[finché il Verbo, cioè la seconda persona della Trinità,
liberamente scelse di scendere in terra nel grembo di Maria]
A parlare, qui, è Beatrice, dopo che l’imperatore Giustiniano è andato via (nel cielo di Mercurio, tra gli spiriti attivi). Beatrice, infatti, scioglie l’ennesimo dubbio di Dante, chiarendo che l’umanità, per secoli, è rimasta gravata dal peso del peccato commesso da Adamo, finché, appunto, il Verbo, liberamente (faccio notare l’utilizzo del vocabolo «piacque», da parte di Dante, nel verso 30, a sottolineare la libertà della scelta di Cristo di assumere la natura umana), non decidesse di incarnarsi nel seno di Maria:
Gesù il Cristo assumeva, così facendo, nella sua persona divina, la natura umana. In ragione di questo, Beatrice scioglie il dubbio di Dante intorno alla contraddizione che l’uccisione di Cristo suonasse al tempo stesso come giusta punizione del peccato originale, ma anche come offesa sacrilega a Dio. Beatrice invita quindi Dante (e ciascun lettore del poema) a concentrare l’attenzione sulle sue parole, poiché le verità divine sono difficili da penetrare:
Ficca mo l’occhio per entro l’abisso
de l’etterno consiglio, quanto puoi
al mio parlar distrettamente fisso [Pd, VII, 94-6]
Il quarto (e ultimo) esempio che propongo, come rinvio al Natale, è nel testo del canto XXXIII del Paradiso, il canto finale, e del poema e del viaggio danteschi. Precisamente nei solenni versi dell’incipit, quelli della preghiera alla Vergine innalzata da san Bernardo, l’ultima guida di Dante:
«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio, 03
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura. 06
Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore. 09
[«Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e nobile (alta),
più di ogni altra creatura,
meta prefissata della decisione divina (etterno consiglio),
tu sei colei che nobilitasti la natura umana,
tanto (sì) che il suo creatore (fattore) [Dio] non disdegnò di farsi sua creatura (fattura) [Gesù il Cristo].
Nel tuo grembo, si riaccese l’amore [tra Dio e l’umanità],
per il calore del quale, nella pace eterna [in Paradiso],
è così germogliato questo fiore [la rosa dei beati].]
Con linguaggio solenne, e con poesia sublime, Dante, con un tweet tra i più fulminanti e riusciti dell’intero poema, riassume il mistero della Vergine Maria (madre e figlia), e dell’incarnazione di Gesù il Cristo (il fattore che non disdegna di farsi fattura, accettando l’umana natura).